Pillole dall'università

Uno scrigno di biodiversità conservato negli orti famigliari

a cura del Prof. Graziano Rossi dell’Università di Pavia

L’Italia è una della nazioni più ricche di biodiversità, sia naturale che creata dall’uomo in migliaia di anni, quest’ultima grazie all’opera di domesticazione e selezione operata, almeno in passato, dagli stessi agricoltori. Tuttavia, negli ultimi 100 anni si è assistito ad una perdita importante di biodiversità in piante, fino al 90 % e oltre per le così dette “vecchie varietà” agricole, soprattutto a partire dagli anni ‘50/60 del ‘900; questo anche in relazione ai così detti boom economico e alla rivoluzione verde, quella che in agricoltura ha sicuramente contribuito moltissimo alla soluzione dei problemi alimentari (almeno nel nostro paese), ma con notevoli costi in termini ambientali e, verosimilmente, non solo. In questo modo le varietà agricole selezionate localmente sono in stragrande maggioranza state abbandonate, vista la possibilità di disporre, grazie all’industria sementiera che nel frattempo si è sviluppata moltissimo,  di entità  molto più produttive, anche se bisognose di continue cure. Tuttavia, sempre più spesso, soprattutto nelle persone di mezza età e da li in sù, nasce il desiderio di ritrovare “vecchi sapori” di una volta, in genere scomparsi, legati ai piatti che gli preparavano mamme e nonne; questi “buongustai” delusi dal cibo standard offerto dalla ristorazione ma anche a casa di ognuno di noi, volenti o nolenti (mancano le materie prime) hanno avuto ancora modo di deliziare il palato con prodotti molto più saporiti e caratteristici degli attuali, in genere molto belli da vedere ma con scarso interesse a livello di palato. Pertanto è un po’ questo “Amarcord” dei sapori che spinge molti di noi a frequentare (pandemia permettendo …..) sagre e feste locali, che in qualche modo cercano di far rivivere a tavola queste emozioni di un tempo che fu. Ma è un mondo totalmente scomparso, un’agricoltura del passato che non può essere più ritrovata?  Eppure, spesso visitando alcune aree del sud Italia (ad es. la Puglia, Campania, Calabria  e Sicilia, ecc.), ma anche  la Toscana o le Marche si ha la sensazione che ci sia un patrimonio (sia di prodotti che di piatti tradizionali ad essi collegati) che in realtà potrebbe essere scomparso soprattutto al Nord o meglio……nascosto ai più. Per avere prodotti di questo tipo non bastano il Km zero o il Bio, è una questione di varietà, di sementi, di luoghi di produzione vocati e di tradizioni culinarie ad essi collegati e in definitiva di una cultura in genere scomparsa, forse per sempre. A questo punto però scatta la curiosità e l’interesse del ricercatore, perché magari, cercando appunto, si può trovare ancora qualcosa di “tipico” locale, emiliano, romagnolo, appenninico, di pianura… Da qui l’idea di cercare in letteratura riferimenti “antichi”, ma soprattutto andare   sul campo (nel vero senso della parola) ad esplorare, percorrere strade secondarie di campagna e soprattutto di montagna, alla ricerca della biodiversità perduta, ma forse non per sempre. Da qui, grazie anche a finanziamenti messi a disposizione dalla Regione Emilia-Romagna e dall’Unione Europea, da alcuni anni è partito l’interessamento di Enti di ricerca e in primis Università e centri di ricerca del Min. dell’Agricoltura come i CREA (MUR e MIPAAF come ministeri di riferimento), oppure di Scuole Agrarie o ancora appassionati a titolo personale, ma non con meno efficacia. Una corsa a scoprire, o meglio ri-scoprire, varietà locali dimenticate, spesso andando di casa in casa e visitando orti e piccoli campi, ad uso famigliare. Una di queste iniziative, da dieci anni, è portata avanti dalla Banca del Germoplasma Vegetale dell’Università di Pavia; in primis il sottoscritto, alla ricerca di materiale genetico che caratterizza così profondamente gli esseri viventi, in questo caso le piante con i loro semi. La banca poi permette, nel caso soprattutto di specie ortive e cerealicole, a seme, di conservare per lungo tempo appunto semi vitali, che altrimenti perderebbero la loro forza riproduttiva entro qualche anno: per 50-60 anni si conservano così vitali, ad es., i semi di frumento e riso, mentre il mais si stima possa conservarsi 250 anni e certe specie di dattero anche 2000 anni (cfr. Dattero di Gesù o Matusalemme, caso fortuito avvento in Palestina in un sito archeologico, ma oggi giorno  facilmente riproducibile anche in queste speciali banche dei semi).

Da qui lo stimolo a cercare di conservare varietà da seme in via di estinzione, visto che questo è un tema che riguarda anche le piante coltivate, non più performanti o meglio quelle domesticate e/o selezionate direttamente dagli agricoltori. Spesso sono anche piante spontanee, che però vengono coltivate  negli orti e pian piano di domesticano, con caratteri selezionati a noi favorevoli, che magari in natura non si trovano o solo occasionalmente. Mia madre a Fusignano (Ravenna)  coltivava ad esempio gli stridoli (Silene vulgaris) o la pimpinella (Sanguisorba minor) e mio padre i lischi (Salsola soda); oggi li troviamo anche al supermercato.

Tra le vecchie varietà agricole un terreno su cui mi sono avventurato, grazie alla guida e aiuta dei colleghi dell’Università di Piacenza del Sacro Cuore sono stati i mais, con il progetto RICOLMA https://dipartimenti.unicatt.it/diproves-progetti-di-ricerca-ricolma

Inoltre ricerche sono state svolte in modo approfondito nella zona del GAL denominato l’Altra Romagna, nella parte collinare di questa area geografica, con particolare riferimento poi ad aree protette come il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, oppure ancora i Gessi romagnoli.

Si può vedere il sito sotto riportato, mentre sta per uscire un libro divulgativo sul tema.

https://www.altraromagna.it/wp-content/uploads/2018/06/prog-biodiversit%c3%a0-_post-audizione_-9-NOV.pdf

https://www.parcoforestecasentinesi.it/en/news/storia-di-un-mais-tradizionale

Qui oltre a mais, si sono cercati e trovati fagioli, fagioli dall’occhio, zucche, pomodori, ceci ed altro ancora.

Perché ricercare queste vecchie varietà “sorpassate”? Intanto per i loro sapori, spesso superiori alle varietà attuali (“che non sanno di nulla”), che in prospettiva possono creare interesse, sviluppando per es. il turismo eno-gastronomico di qualità, dando vita magari a filiere di richiamo, che forniscano così un’identità a territori spesso dimenticati, come le zone rurali in genere, quelle delle montagne e valli minori. Poi il cambiamento climatico in atto ci ha mostrato drammaticamente i limiti della nostra agricoltura industrializzata, bisognosa di tanta acqua e tanti input esterni; le vecchie cultivar, a volte, possono offrire tratti utili per la nuova selezione varietale, recuperando ed introducendo ad es resistenze a stress ambientali, come la siccità.

Ma la ricerca continua e si invitano coloro che possiedono o comunque conoscono “vecchie varietà” locali del territorio emiliano-romagnolo di segnalarcele.

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